In Parlamento è imminente la  ripresa dei lavori in sul progetto di legge sull’agricoltura biologica, che contiene anche la normativa per l’istituzione dei biodistretti. Ne parliamo con Bruno Manzi, coordinatore per il Lazio di Città del Bio e presidente del Consiglio nazionale di Lega Autonomie

Alla luce dell’esperienza maturata, quali sono gli elementi indispensabili per il successo di un bio-distretto?

Per il successo di un bio-distretto servono due elementi: intanto una forte motivazione degli amministratori locali, che considerino prioritari nelle loro azioni la tutale dell’ambiente, le politiche a favore delle produzioni agro-alimentari biologiche e biodinamiche, la tutela dal consumo di suolo, l’educazione alimentare e politiche che favoriscano un turismo dolce legato ai beni culturali e all’enogastronomia. E poi un gruppo di produttori, non ideologizzati (cioè che si non pongano in antitesi con il “resto del mondo produttivo”) ma collaborativi a cercare di convincere tutti a politiche di tutela dell’ambiente e della salute degli stessi produttori. Che sappiano fare rete. E che poi, dopo la fase di start up, quando si ridurrà la spinta propulsiva al fare, mantengano l’interesse a far avanzare il territorio e a conservare il biodistretto.

Tra i parametri previsti per il riconoscimento del bio-distretto, l’elevata incidenza della superficie biologica rispetto alla SAU (superficie agricola utilizzata) rappresenta una questione cruciale. E’ giusto partire da una concentrazione minima di SAU 

A nostro avviso non sono le SAU che debbono essere prese in considerazione in maniera formale. La soluzione adottata dal disegno di legge approvato dalla Camera nella scorsa legislatura soddisfava appieno il nostro modo di pensare. Ci deve essere un minimo di produzione biologica non misurabile in quantità ma in capacità di mettersi alla testa di un movimento. Il comitato promotore è quindi importante a prescindere dalla percentuale di SAU biologiche dell’area.

Il rispetto di questo come degli altri parametri è davvero indispensabile? Potrebbe essere auspicabile una maggiore flessibilità o la previsione di tempi sufficientemente lunghi per raggiungere gli standard richiesti?

Noi crediamo occorra avanzare con un processo e non con atti burocratico formali. Le Regioni possono dettare regole a integrazione della legge nazionale, non per fissare parametri quanto per immaginare un percorso evolutivo. Ad esempio, una commissione che valuti – come avviene per l’UNESCO – il progetto territoriale di sviluppo che il Comitato promotore realizzerà, in cui siano indicate le fasi di avanzamento del progetto e i risultati misurabili che si vogliono ottenere in un dato tempo. E’ il raggiungimento di quei risultati che determina l’esistenza del biodistretto in una determinata area.

Bruno Manzi – Coordinatore Associazione Città del Bio Lazio

Quali sarebbero le conseguenze se il parametro non venisse raggiunto? Finisce il bio-distretto?

Se consideriamo il biodistretto tutelato da un marchio e prevediamo il processo di cui sopra allora sarà quella commissione che valuterà lo stato di avanzamento del progetto e i risultati se siano o meno in linea con quanto dichiarato. Potrà, nel caso di raggiungimento solo parziale, fornire altro tempo e stimoli per riallinearsi. Diversamente si perderebbe il marchio come avviane per i siti UNESCO che non mantengono le ragioni per cui sono stati costituiti. Noi dobbiamo immaginare un processo attivo e non tanto solo una mera azione di valutazione burocratico formale. Il nostro obiettivo è di far crescere l’agricoltura biologica e quindi il biodistretto va visto come una opportunità in tal senso e non l’ennesimo ingabbiamento burocratico dell’economia locale.

La costituzione di network tra operatori biologici, istituzioni e stakeholder, inclusa la società civile: utopia o realtà?

E qual è la strada  percorsa da “Città del Bio”per promuovere la costituzione del nuovo bio-distretto e quali sono le difficoltà?

Città del Bio è un’associazione composta solo da Enti Locali. E’ quindi evidente il nostro target. Abbiamo cercato di stimolare gli amministratori locali a svolgere un ruolo che è proprio: quello di progettare e gestire politiche di sviluppo territoriale che si basino sugli elementi prima detti. Tutela dell’ambiente e del paesaggio, produzioni agro-alimentari con modalità compatibili alla tutela dell’ambiente e della salute umana e animale, turismo sostenibile. E sono loro in grado di mobilitare l’associazionismo territoriale.

Su quali attori fare leva?

Come già detto noi abbiamo cercato di agire soprattutto dando stimolo agli amministratori locali. In aree periferiche e spesso con economie deboli, restano per noi i primi attori e probabilmente gli unici ad avere opportunità a mettere in campo politiche aggregative di questo tipo.

Bio-distretti e approccio agroecologico. Qual è la cornice teorica di riferimento?

L’economia locale diviene l’elemento determinante. Dove il territorio ha visto sviluppi industriali pesanti, l’economia che si basa sulla difesa del suolo è secondaria. Dove invece – spesso per ragioni economico – territoriali che per efficaci politiche di tutela, almeno nella maggioranza dei casi, si è riusciti a far emergere l’importanza della tutela ambientale e della necessità che l’ambiente non sia nemico dell’economia locale, anzi, divenga uno dei punti di forza e di attrazione.

Quali sono i punti di connessione fra economia e ambiente?

 L’acqua non inquinata, la qualità dell’aria, la centralità del paesaggio da soli non bastano per diventare fenomeni attrattivi di risorse. Nei documenti che abbiamo contribuito a creare – noi stimoliamo veri patti territoriali approvati dai consigli comunali – abbiamo posto la questione del ben vivere bellezza, salute fisica e socio economica come elemento centrale. In tal senso la difesa intelligente dell’ambiente, da far diventare elemento di sviluppo economico, diventa elemento imprescindibile.

E’ possibile  trasferire i valori dell’agricoltura bio alle altre attività presenti sul territorio?

Il  trasferimento dei valori dell’agricoltura biologica è già  una realtà o i tempi sono prematuri?

E’ già una realtà, almeno nel settore dell’incoming turistico. Per le ragioni sopra indicate. Ma non è automatico ottenere questi risultati. Occorre un lavoro certosino. Per esempio non è affatto detto che i ristoratori, gli albergatori, si considerino parte del sistema locale. Non c’è in Italia una cultura della rete. Solo in alcune realtà si sta cominciando – con ritardi galattici rispetto ad altre parti dell’Europa – a fare qualche esperienza di rete d’impresa nel nostro settore.

È possibile individuare un ruolo per la filiera biologica?

Certo che sì. Ma anche qui se si forma un’alleanza tra amministratori, operatori e cittadini e cresce la consapevolezza di operare in termini di sistema.

Ci sono strade sono da percorrere?

Ad esempio nei PSR o in Programmi di Sviluppo non solo agricolo, inserire da parte delle Regioni elementi di finanziamento e premialità ad iniziative – in sede di start up – che privilegino le azioni di rete che vedano protagonisti non solo i produttori agricoli, i trasformatori, gli operatori del turismo, ma anche le amministrazioni locali, l’associazionismo di cittadinanza che insieme promuovano progetti che vanno dall’educazione alimentare nelle scuole, fino alla presenza – grazie alla strutturazione di sistemi di logistica territoriale – delle produzioni locali nei negozi di vicinato che ancora esistono, nella consegna a domicilio dei prodotti, nelle mense scolastiche ecc…

Gli strumenti normativi e finanziari dei bio-distretti

Il bio-distretto oggi si qualifica quindi più come un soggetto di “politica” territoriale. In mancanza di un riconoscimento giuridico, quali sono le soluzioni possibili? 

Le soluzioni possono essere diverse: tra il mantenimento in vita del Comitato promotore, alla fondazione – se sostenuta ad esempio dalle fondazioni bancarie del territorio – sino alla semplice associazione di promozione sociale come ad esempio noi abbiamo fatto nel Bio Distretto Suol d’Aleramo nel Monferrato, la cui costituzione co-promuovemmo.

Quali sono le questioni critiche da affrontare?

Nel caso dell’associazione di promozione sociale una semplificazione normativa nello specifico che eviti di paragonare una simile struttura organizzativa a quelle di altre associazioni, con aspetti di costo e burocratici non sempre affrontabili se non di nuovo burocratizzando il tutto. Forse l’inserimento nella legge nazionale di una simile opportunità potrebbe rappresentare una soluzione.

I Bio-distretti e la programmazione per lo sviluppo rurale

Rispetto all’esperienza attuale, quali aspetti sono da migliorare o quali elementi dovrebbero essere introdotti per promuovere la diffusione dei bio-distretti e il loro sviluppo nel prossimo periodo di programmazione europea della politica agricola dei PSR regionali?

La crescita ormai a due cifre del consumo di prodotti biologici, dovrebbe stimolare il Governo nazionale e le Regioni a politiche più consistenti e attive nella promozione della produzione biologica italiana. Oggi nei PSR non c’è quasi premialità – se si esclude un modesto incremento dei contributi PAC. Che non sempre sono utilizzati bene… Mentre invece quegli strumenti di pianificazione dovrebbero tornare ad assumere non un ruolo di mero dispensatore super partes di finanziamenti tra i due modelli di produzione agricola, bensì elementi di politiche ambientali ed economico produttive, assumendosi politicamente la responsabilità delle scelte compiute.

Il ruolo dei bio-distretti rispetto alla commercializzazione

Ci sono difficoltà nela lcommercializzazione dei prodotti?

La difficoltà principale è data dalla situazione del comparto: estremamente frazionato e spesso fatto di piccole produzioni. Il tema della logistica e della capacità di stare sul mercato sono questioni principali. Ma vi è anche un’altra questione: spesso la dimensione piccola delle aziende è voluta, perché raggiunto un minimo di equilibrio economico, si tende a non andare oltre nella produzione, dato che ciò imporrebbe assunzione di personale, rispetto di adempimenti burocratici, ecc…  Occorrerebbe la strutturazione di operatori economici (ad esempio le cooperative di lavoro) che, debitamente formando il personale ad una molteplicità di funzioni nel comparto agricolo, possano fornire il supporto necessario che eviti alla piccola azienda familiare le complicazioni che oggi subisce, stimolandola a crescere nella legalità.

Il marchio invece ha efficacia postitiva? 

Da solo sarebbe poca cosa. Oggi occorre ben di più. Per questo noi abbiamo creato un marchio “Italia del Bio” a cui aggiungere l’indicazione territoriale del biodistretto, che viene concesso però solo in presenza a tracciabilità totale della filiera produttiva. Noi consumiamo più prodotto biologico di quanto ne produciamo. Al crescere del consumo crescono anche le truffe e quindi ad ogni truffa è l’intero sistema che paga le conseguenze. Quindi anche i marchi territoriali dei biodistretti dovrebbero imporre ai produttori di beni e servizi la completa tracciabilità e trasparenza produttiva per il consumatore. In questo modo, grazie anche all’aiuto dell’informativa e del web, il marchio assume un ruolo attrattivo forte.

ITALIA del BIO

Il Marchio Italia del Bio