Milano (Red) – Il Lazio si piazza agli ultimi posti nella classifica delle Regioni più “bio” d’Italia. È il quadro delineato da una ricerca sulla filiera bioeconomica del nostro Paese elaborata da “Studi e ricerche per il Mezzogiorno”, centro studi legato al Gruppo Intesa Sanpaolo.
Secondo lo studio, sul podio troviamo Toscana, Marche e Friuli Venezia Giulia, seguite da Veneto, Umbria ed Emilia-Romagna. La classifica – si legge in una nota – prende in considerazione l’importanza sul Pil regionale dei settori completamente “bio”, come l’agroalimentare, il legno, la carta e l’idrico, (impronta bioeconomica), insieme a quella dei settori parzialmente “bio”, dove l’output finale deriva solo in parte da prodotti di origine organica, come la chimica, i mobili, la farmaceutica, l’abbigliamento, la moda, gomma e plastica, l’elettricità e i rifiuti.
L’impronta bioeconomica, insieme al livello di transizione bioeconomica – cioè il passaggio, attraverso l’innovazione tecnologica, da produzione parzialmente “bio” a totalmente “bio” – stabiliscono la graduatoria delle Regioni. Dopo il primo gruppo (Toscana, Marche, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Umbria ed Emilia-Romagna), caratterizzato da un’impronta “bio” e da un livello di transizione bioeconomica più elevati, segue un secondo composto da Abruzzo, Puglia, Basilicata, Trentino Alto Adige, Molise, Sardegna e Calabria. Questi primi due gruppi, a parità di impronta bioeconomica, si contraddistinguono per un diverso livello di transizione sul quale incide anche la dimensione innovativa del sistema produttivo che risulta maggiore nel primo gruppo.
Il terzo gruppo, con un’ancora più bassa impronta “bio” dell’economia e con livelli di transizione tecnologica variabili, vede presenti Campania, Lombardia, Piemonte e Sicilia, mentre agli ultimi posti si piazzano Lazio, Liguria e Valle d’Aosta.
C’è da evidenziare che molte di queste Regioni – come ad esempio la Lombardia, la Campania e il Lazio – si caratterizzano per una maggiore diversificazione produttiva (rispetto alle Regioni delle rispettive macroaree) e una più articolata e variegata specializzazione industriale, che possono penalizzarle nella valutazione del reale ruolo nella bioeconomia.
Il valore aggiunto della bioeconomia italiana, prosegue la nota, è di circa 100 miliardi di euro ed impiega oltre due milioni di addetti. Con questi valori l’Italia è fra i Paesi in Europa a più alta incidenza della bioeconomia all’interno del sistema economico, il 6,4 per cento in termini di valore aggiunto e quasi l’otto per cento per l’occupazione. Dall’analisi territoriale, il Nord-Est è la prima area del Paese per valore aggiunto realizzato dalla filiera bioeconomica (29,6 miliardi). Seguono il Nord-Ovest (28,3), il Mezzogiorno (24,4) ed infine il Centro (19,3). Prendendo in considerazione gli addetti, la prima area è quella meridionale (con circa 732 mila occupati).
Le Regioni meno performanti, si legge nel documento, sono quelle che debbono maggiormente impegnarsi nel processo di transizione bioeconomica dei settori parzialmente “bio”, e tra queste si collocano diverse realtà meridionali. Il Pnrr offre una grande occasione di rilancio per la bioeconomia perché destina la quota più rilevante delle risorse alla transizione ecologica. Nello specifico, si tratta di 59,47 miliardi di euro (pari al 31 per cento del totale delle risorse) a cui vanno aggiunti ulteriori 9,16 del Piano complementare e 1,31 di React Eu. La quota di risorse destinata al Mezzogiorno è stimata pari a circa il 32,8 per cento del totale. Un’altra fetta importante delle risorse del Pnrr è destinata alla transizione digitale. Dei circa 49,3 miliardi di euro, ben 23,9 sono destinati alla digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo, e ne vanno aggiunti altri 5,88 a valere sul Piano complementare. La relativa quota di risorse destinata al Mezzogiorno è stimata pari al 36,5 per cento. “La bioeconomia è una filiera che si alimenta negli ambienti innovativi: la sua crescita è strettamente connessa alla continua contaminazione con la componente tecnologica, e questo richiede una maggiore apertura alla collaborazione”, ha commentato Salvio Capasso, responsabile Servizio imprese e territorio di Srm.